martedì 22 marzo 2016

Orange come: “Ti porterò le arance in carcere”

ALT! Considerazioni di una che s'è già macinata tutte e tre le stagioni. Quindi, se non volete rivelazioni scomode, sciò. Via. Ci si rivede al prossimo articolo.

Cosa dire di questa serie? Che l'ho amata alla follia. La prima stagione l'ho cerimoniosamente seguita in tv, appollaiata su una sedia della cucina, al lume della cappa. E di grazia che mandassero in onda non una, ma due puntate alla volta. In ogni caso, la fine del secondo episodio mi lasciava sempre di umore assatanato per il resto della settimana, non c'era modo di evitarlo.
E poi arrivò Netflix. Anziché piombare immediatamente sulla seconda stagione, godendo come un riccio, come sarebbe stato logico, mi ripassai tutta la prima dal principio, pregustando quella liaison fra tredicesima puntata della prima stagione e prima della seconda che il palinsesto crudele di Rai4 mi aveva negato.

L'intera trama e ogni singolo personaggio mi hanno colpita, ma cosa ho trovato di particolarmente originale?

L'inettitudine del maschio.
Ogni singolo uomo di Orange incarna la vigliaccheria, il fallimento, l'assenza.
I padri rinnegano i figli, come si vede nei casi di Piper e di Boo, oppure li maltrattano, li fuorviano... o ancora, scappano dalla famiglia, come il buon Bennett.
L'unico padre che vorrebbe assumersi le sue responsabilità, il secondino “Pornobaffo”, oltre che finire a sua volta in carcere, è potenzialmente squilibrato.
I mariti, quando non si umiliano davanti alle mogli, come Healy, o Caputo, le picchiano.
L'unico uomo coraggioso e degno di stima si trasforma sessualmente in donna: naturalmente, mi riferisco a Sophia.

L'involuzione
di Piper, per la quale inizialmente provavo una simpatia incondizionata, poiché si sforzava, seppur fra innumerevoli passi falsi (anche un po' da babbea, diciamocelo), di essere una persona decente. Sempre più insicura, non diventa certo umile; piuttosto, superba.
Mentre le sue certezze vanno sgretolandosi (la comprensione dei genitori, l'affetto incondizionato del padre, la fedeltà di Larry e dell'amica Polly, i suoi progetti, i suoi valori) e un'aggressività latente emerge, un'energia tutto sommato buona, ma da gestire (per evitare i parossismi che le fanno picchiare Doggett – quasi - a morte), Piper non si fa più genuina, come ci si aspetterebbe dal suo personaggio, così candido all'apparenza, ma anzi, impara a farsi strada tra sotterfugi e compromessi sempre più intricati, peggiorando velocemente la sua situazione (e perdendo la morale), in un modo che non si può giustificare del tutto con l'ambiente soffocante e le ingiustizie del carcere.
La parabola discendente di Piper accelera quando decide di far rinchiudere di nuovo Alex, che poi scarica per Stella, che a sua volta tradisce per vendicarsi di un furto da lei subito. Una serie di scelte all'apparenza macchinose, ma dettate soprattutto dallo stomaco, e che la assegnano definitivamente all'orgoglio.
Forse, la trasformazione di Piper impressiona tanto perché, se paragonata alle vicende umane delle compagne di carcere, che, al contrario, da presenze quasi esclusivamente ostili sembrano infine addolcirsi, sembra fare di lei un mostro.
In realtà, se volessimo cogliere la sua esperienza in un'ottica più ampia, potremmo intuire solo l'inizio di un percorso, cominciato comunque con il piede sbagliato, secondo principi erronei, ma indiscutibilmente umani.
Tradita e abbandonata persino dalla compagna Alex durante il processo, Piper, accusando uno shock dopo l'altro (si considerino i 18 mesi di detenzione come periodo), impara a contare solo sulle proprie risorse, quindi, a credere principalmente in se stessa.
La sua debolezza più grande, è l'impossibilità di rimanere single. Più volte si ritrova scaricata, anche quando crede di avere un'alternativa (Alex, Larry/ Alex, Stella).

Lo so, mi sono contraddetta. Prima dico che Piper trasformata nell'arco di pochi mesi in boss mafioso senza scrupoli è inverosimile, poi che è giustificabile. Forse dovrei riguardare l'intera serie da capo, per schiarirmi le idee!
Ho cercato di dilazionare sempre più la visione degli episodi per evitare l'ineluttabile: cioè, che finissero; ma ora che ho l'animo in pace, potrei serenamente rituffarmi nell'adorabile mondo a sbarre.
O magari, potrei mettere mano alla biografia di Piper Kerman, immediatamente acquistata, non appena ne ho scoperta l'esistenza.
Scelte come questa, mi deliziano. :3
Chissà se anche il libro si chiude con l'immagine stridente di una Piper sola, intenta ad autocelebrarsi con un tatuaggio del simbolo ∞ mentre Alex, la sua Alex va incontro al tragico destino che aveva sempre temuto (forse), e fuori le detenute rubano un magico momento di libertà, ritrovando chi l'amicizia, chi l'amore.

Lo Yogi più buono

C'è uno Yogi che non medita, senza Bubu a fargli da spalla, fra gli scaffali di certi negozi bio: precisamente, nel reparto tè.
La confezione è alquanto caratteristica: nel caso non capiste immediatamente la filosofia dietro queste bevande, rigirandovi la confezione fra le mani, noterete una posizione yoga diversa per prodotto, un barcode a forma di yogi che fa il loto e, una volta che aprirete la scatola, una massima zen differente riportata su ciascuna bustina.
Conobbi tale marca, la Yogi Tea per l'appunto, in un'occasione singolare, un evento che si tenne all'Orto Botanico di Modena per festeggiare la notte di San Giovanni e il solstizio d'Estate; al termine della serata, dopo un seminario riguardante l'utilizzo delle erbe e la stregoneria, vennero gentilmente distribuiti biscotti e tisane di vari gusti, tutte piuttosto piccanti.
In effetti, fra gli ingredienti che ricorrono nelle ricette di questi tè, ci sono il pepe nero, la liquirizia, lo zenzero e il ginseng.
Sono talmente tante le combinazioni che non le ho ancora provate tutte, ma ho già le mie favorite: Donne, dal sapore delicato, a base di zenzero, scorze d'arancia e camomilla, l'ho trovato particolarmente piacevole da abbinare ad autrici femminili; Zenzero Ibisco, un tè che si sposa ad ogni sorta di lettura, e Zenzero, una miscela incendiaria, ottima come digestivo, sostitutivo del caffè (nel caso che, come me, stiate cercando di limitarne il consumo) e tonico per affrontare maratone di serie tv a notte fonda.

L'Isola della Paura, Dennis Lehane - Shutter Island

Cos'è Shutter Island, oltre che un film mozzagambe, filtrato in azzurro?
L'Isola della Paura, questo il titolo originale affibiatogli nella traduzione italiana, è un avvincente thriller ambientato nel secondo dopoguerra - e con l'aggettivo “avvincente”, mi limito a un insipido eufemismo.
L'agente FBI Teddy Daniels, affiancato da un nuovo partner, Chuck Aule, investiga sul caso di una paziente, Rachel Solando, scomparsa da Ashcliffe, istituto psichiatrico di massima sicurezza situato all'interno di un'ex fortezza, su un'isola al largo delle coste di Boston: Shutter Island, la tetra.
E questo è l'inizio della storia, quando ancora le cose appaiono semplici e perfettamente consequenziali.
La paziente, fuggita misteriosamente da una cella chiusa, passando inosservata attraverso i corridoi sorvegliati dal personale del manicomio, ricompare quando l'indagine è ancora all'inizio, appena dopo che gli agenti, raccolte le prime testimonianze, cercano di ricostruire l'accaduto; a Daniels viene permesso di vedere Rachel, una donna che si rivela tanto folle quanto indiscutibilmente sensuale.
Dato che il caso è da considerarsi risolto, i dottori, i quali pare abbiano fretta di porvi una pietra sopra, si affrettano a congedare gli investigatori, ma Teddy trova che la faccenda somigli sempre più a una grossa montatura, e sospettando che la paziente ritrovata sia una vittima di strani esperimenti, decide di proseguire le indagini.
Nonostante l'atmosfera inquietante e torbida, assimilabile al genere horror, i personaggi sono da romanzo noir; i toni del romanzo sono riflessivi, le descrizioni funzionali, il protagonista introspettivo - di più, introverso. I flashback sono numerosi, e si avvicendano agli incubi e alle ricostruzioni del caso congetturate da Teddy.
Sebbene abbia trovato L'Isola nel complesso una perla, ho notato la debolezza di alcune similitudini - ma la nota è da considerarsi del tutto marginale. Non ho dovuto attendere troppo, prima che la trama cominciasse a complicarsi, pervasa com'è di mistero e situazioni che virano all'assurdo - né essa  sembra costituire il classico imbuto narrativo (termine coniato sul momento per dare l'idea di una narrazione che va restringendosi – per l'appunto, come un imbuto – secondo una serie di deduzioni logiche, che escludono man mano personaggi, false piste e riducono il campo d'azione del protagonista) in questo caso, al contrario, gli indizi si rivelano sempre discutibili, e vi dirò... è proprio cadendo preda di questo senso di frustrazione che si è spronati nella lettura in modo maniacale.
Ogni indizio porta alla dispersione, e il protagonista ne viene trainato, condotto da un capo all'altro dell'isola; tutti gli edifici sembrano racchiudere la chiave del mistero, come roccaforti devono essere espugnate; le fonti, così come gli indiziati, appaiono e scompaiono, e non si evince mai fino in fondo che peso abbiano ai fini della soluzione dell'enigma.

Ma sono i temi della storia, i quali si rimandano l'un l'altro, a costituire la componente davvero intricata del romanzo.

Paranoia/ Complottismo (di Teddy) L'omertà dei personaggi ostacola l'indagine; i pazienti, in quanto pazzi, non costituiscono fonti attendibili; medici e infermieri sono tutti sospettabili, in quanto lavorerebbero a un progetto scientifico finanziato da enti governativi; le guardie spiano e sorvegliano le mosse di Teddy; persino il suo partner, Chuck, che ha origini ignote, potrebbe fare parte del complotto contro di lui.
Prigionia La prigionia dei pazienti, chiusi all'interno di una fortezza/penitenziario/istituto psichiatrico, chiusi dentro la loro stessa mente; il senso di claustrofobia degli agenti, che temono di non essere liberi di andarsene dall'isola. Teddy vive prigioniero dei propri ricordi e del senso di colpa.
Etica Il progresso e la scienza volti a combattere Il Nemico Pubblico. L'eterno dilemma etico sull'utilizzo di creature considerate “di scarto” dalla società, per condurre esperimenti intesi al bene comune, quindi “Superiore” al singolo individuo.
Conflitto è una lotta interiore continua per fare ordine fra le priorità: tra scopi personali e indagine investigativa; tra il fine della ricerca scientifica e la dignità umana.
CAUTION! - SPOILER

Tempesta – Fuga, terapia d'urto. La tempesta usata come chiave di volta dell'intera, lunga e rischiosissima terapia sperimentale l'ho trovata un espediente un po' forzato.
La tempesta riflette il meccanismo del sogno: ogni nuovo fatto viene integrato nell'illusione e crea un precedente, riscrivendo dal principio l'intera storia - come se il protagonista ne fosse sempre stato consapevole, come se il tempo ripiegasse su se stesso, e la terapia d'urto generata dalla tempesta funziona allo stesso modo.
Colpa Il senso di colpa e l'evasione: l'evasione di Teddy durante la tempesta per scovare i colpevoli è anche la sua evasione dal senso di colpa.
Evasione → Alienazione Il tentativo di Teddy di evadere da Shutter Island per timore di rimanervi imprigionato, coincide con la paura della verità.
Vendetta Stravolge le priorità del protagonista, ed è motivata dal senso di colpa. Teddy va incontro alla nemesi.
Dolore Vivido nei flashback e nei ricordi, già legato all'infanzia, ai campi di prigionia, alle spedizioni in guerra, alla depressione della moglie di Teddy, al senso di impotenza di fronte alla malattia della moglie, che il protagonista non vuole riconoscere; infine, legato alla perdita di moglie e figli. Anche l'agente Aule e il dottor Cawly (per non parlare dei pazienti dell'Istituto)
veicolano storie di profondo dolore.

Per chi avesse già visto il film molto ben azzeccato di Scorsese, questo rimane un ottimo libro. Non credete di potervi stupire di meno (non dico “annoiarvi”, perché sarebbe totalmente fuori discussione), il fascino del racconto di Lehane eserciterà un'influenza troppo forte perché vi perdiate nella ricerca di similitudini e differenze con ciò che avete visto sullo schermo.
Al massimo, potrebbe capitare che vi figuriate un Teddy Daniels così:

martedì 15 marzo 2016

RILETTURE

IT, Stephen King
Letture: 3




Avete presente quando si cercano significati inesistenti all'interno di un'opera, perché ci piace talmente tanto che abbiamo bisogno di porla su un immaginario altare?
O quando è l'autore stesso a gettarsi in spiegazioni di simboli che hanno senso soltanto per lui, di solito inseriti appositamente per montare la storia?
Ecco, con l'It del vecchio Ste, capita l'esatto contrario.

A parte la favolosa edizione tascabile Sperling & Kupfer in possesso ai più – compresa la sottoscritta – inevitabilmente destinata a sfaldarsi dopo la prima lettura, con tanto di trama sbagliata in quarta di copertina, corredata dall'immagine di un artiglio – tipo di alligatore mutante - che sbuca dal tombino, in quella che sarebbe, nel racconto, una delle scene emblematiche di partenza (e che mi rimanda ogni volta a Metamorfosi Totale, di R. L. Stine), e pur sorvolando sul fatto innegabile, quello che fa storcere il naso agli snob e ai radical shick, ovvero:
trattasi del libro di un autore POP
consideriamo pure questa storia come un'allegoria della vita umana.

Brevizzimo riassunto della trama, senza spoiler: Estate. Sette giovani outsider delle elementari, nel sfuggire ai loro aguzzini, gli spietati bulli della scuola, si ritrovano uniti dal destino - come tasselli di un puzzle in un fatidico incastro - in lotta contro gli stessi nemici. Ma cosa li ha davvero scelti? Il risveglio di una creatura aliena che, ogni ventisette anni, esce dai condotti fognari di Darry per nutrirsi, mietendo vittime fra i bambini.
Il Club dei Perdenti riesce a respingere It, l'estate finisce, le loro vite proseguono, ed essi si disperdono. Trascorsi ventisette anni, Mike Hanlon, l'unico membro del club rimasto a Darry, convoca i suoi vecchi amici perché onorino un antico patto... It è tornato.

TEMI
&
Sottotemi
L' INFANZIA
la magia legata al segreto e all'unione; il numero magico 7, i sette del Club dei Perdenti; il potere dell'immaginazione → l'immaginazione dei bambini costituisce un'arma a doppio taglio: attraverso di essa, si può sia rimanere vittime, che respingere It;
la lotta per l'affermazione del territorio contro i nemici, del proprio ruolo, per la dignità;
la paura della paura degli adulti, dei propri persecutori, dei propri demoni, di It;
i tabù Stan Uris vittima del suo grande tabù, cioè It → It in quanto Grande Tabù; i tabù degli adulti;

La MATURITÀ – i brillanti maturano, acquisendo saggezza e fortuna, i corrotti invecchiano, senza cambiare mentalità, né evolvere mai;
la nostalgia, scomparsa dei luoghi cari; nostalgia dell'infanzia; nostalgia come sentimento d'amore,  d'unione e di identità/appartenenza;
la debolezza, Stan Uris si uccide → manca il settimo membro → 7, il numero magico viene meno; la stanchezza propria dell'età adulta; la mancanza di fede;
il disincanto mancanza di fede, quindi perdita della magia; i limiti dell'infanzia si sono trascinati nell'età adulta (es. rapporto di Beverly con il padre si riflette appieno nel rapporto con il marito).

Il RITORNOil cerchio che si chiude, la completezza, la compiutezza;
il ricordo, la rimozione del passato; il passato come presenza fantasmatica, inquietante; il confronto (con il sé passato/ con i luoghi passati); senso di perdita e fasi nuove;
la ciclicità l'eterno ritorno di It, il ritorno a casa.

L'INCONCEPIBILE: IT in quanto dilemma filosofico/esistenziale.
It: “Esso”, creatura aliena presente da sempre, precede sia l'uomo che la stessa origine del mondo. Si cerca di afferrare It, di aggrapparsi alla sua lingua → linguaggio → inesprimibilità: incomunicabilità = essere inconcepibile.
Per affrontarlo, lo si deve mascherare.
Lo si argina ma non si arresta, non si può mai annientare definitivamente.
Dopo lo scontro con It, si perde la memoria.
Non si può dare un senso a It, o al confronto con It, poiché non è cosa concepibile all'essere umano.
It rende CONSAPEVOLI → IT È LA MORTE, e il mistero della morte insieme.

La CONSAPEVOLEZZA DEL SÉ dei propri poteri, dei propri limiti;
la solitudine, è definita dal peso delle responsabilità, dal proprio vissuto (nella sfera privata di ciascuno dei personaggi); dai propri demoni (la mummia di Ben, il lebbroso di Eddie, Paul Bunyan di Richie, ecc), dall'oltraggio;
l'isolamento la divisione è creata dalla paura e dalla perdita della magia (ovvero, della memoria).

La MORTE- It è un mistero insondabile.
Viene respinto, ma non sconfitto.
Una volta visto, la vita dei protagonisti muta irrevocabilmente.
It viene dimenticato perché non si può vivere con la consapevolezza della morte.

La FORTUNA – tema caro agli americani. I protagonisti hanno affrontato It e la banda di Bowers, ma non li hanno sconfitti. Il successo che vivono da adulti non è solido, ma strappato attraverso dolorosi compromessi, e perciò esso risulta vuoto di significato, come un'esistenza presa in prestito. I protagonisti rinunciano ai loro averi e tornano a casa per onorare un vecchio giuramento, e liberarsi dalle insicurezze infantili, dei quali sono rimasti inconsapevolmente schiavi (la morte di Georgie, la violenza del padre di Bev, la possessività della madre di Eddie ecc).

Il DESIDERIO: permea ogni cosa. Attraverso il desiderio, i protagonisti ritrovano se stessi, la strada nelle tenebre, la forza di combattere.
Il Desiderio è una sensazione struggente e malinconica, rappresenta l'energia vitale, la gioia di vivere, l'accettazione.
Il desiderio coincide con la nostalgia, quindi con la memoria.


Non so se King avesse intenzione di creare un'opera tanto vasta e profonda, o se, a un certo punto, ci si sia semplicemente ritrovato; probabilmente voleva solo scrivere di un mostro alieno, ma, PURTROPPO PER LUI, POVERINO, è talmente pieno di talento che gli è uscita così, suo malgrado.

Come ho indicato all'inizio di questo post, ho letto It già tre volte; l'ultima, è stata l'anno scorso.
Siccome, in almeno un paio di occasioni, quando lo lessi ero ancora molto giovane, posso assicurare di non essermi mai sforzata di trovare pretesti che ne rendessero la lettura più nobile, o giustificabile nei confronti di un eventuale critico particolarmente saccente (nel caso ci si stesse chiedendo da dove sia andata a pescare i temi sopracitati).
Alcuni fra i romanzi di King, del quale sono grande estimatrice, sono opere davvero ispirate, che vanno ben oltre l'intrattenimento, o i mosti presi in prestito – ehm – da Cthulhu. Leggendo It la prima volta – uno dei miei libri preferiti in assoluto – ne percepii da subito la vastità, sebbene, inizialmente, mi preoccupai solo di farmi travolgere dalla narrazione, e non di analizzare perché mi suscitasse determinate sensazioni.
Passata questa terza esperienza, ho deciso di raccogliere le impressioni sotto forma di appunti aggiornabili... perché è certo che It tornerà; tornerà sempre, nella mia vita.


Stile
E no. Bisogna andarselo a leggere, per capire.

venerdì 11 marzo 2016

L'incubo di Hill House, Shirley Jackson

Conosciuto anche con il titolo, terrificante di per sé, “La Casa degli Invasati” questo romanzo di Shirley Jackson è matrice di tanta letteratura e cinematografia riguardante case sinistre nelle quali gruppi di ricerca, comitive di vacanzieri e famiglie finiscono prede (si pensi a La Casa del Buio, di Stephen King e Peter Straub, l'Overlook Hotel in Shining, dello stesso King - e a proposito del Re dell'horror: anche dall'amata Jackson, a quanto pare, non s'è limitato a trarre ispirazione: tanto nel romanzo Carrie quanto nel film Rose Red imperversano piogge di massi dal cielo. Fra i film, spiccano Rose Red, autentico omaggio all'autrice, ma anche il rivisitato Amityville Horror). Il professor Montague, antropologo interessato ai fenomeni paranormali, organizza una spedizione all'interno dell'inquietante villa conosciuta come Hill House, con l'intento di osservarne l'eventuale manifestarsi di episodi sovrannaturali; a tal fine, convoca diverse figure “dotate” che abbiano vissuto in passato esperienze extrasensoriali, o alle quali sia stata documentata una particolare predisposizione alle stesse.
Di tutte le missive spedite, soltanto tre persone decidono di prendere parte all'esperimento: Theodora, artista esuberante e narcisista, probabilmente una sensitiva; Luke Sanderson, erede della casa, e la protagonista Eleanor Vance, scelta perché in passato assistì all'abbattersi di una tempesta di pietre sulla sua dimora - ora una giovane donna di trentadue anni, da sempre costretta ad una vita di squallore e solitudine, principalmente volta ad accudire la madre invalida. Al decesso di quest'ultima, con la prospettiva di un'esistenza altrettanto insignificante davanti, nella missiva dell'ignoto professore Eleanor intravede un pretesto per voltare pagina.
Il programma del professor Montague consiste nel soggiornare una settimana all'interno della strana abitazione, annotando tutte le possibili sensazioni, avvistamenti, eventi fuori del normale.
I dialoghi spesso strampalati della comitiva vanno a parare nell'assurdo con ironia acutissima, il taglio del discorso diretto è quello vittoriano; qui il professore che chiede a Luke di procurargli una tazza di caffè presso Mrs Dudley, la temibile domestica:
Vecchio screanzato” disse Luke. “Sacrificarmi per una tazza di caffè. Non sorprendetevi, e lo dico come un fosco presagio, non sorprendetevi se perderete il vostro Luke in questa causa; forse Mrs. Dudley non ha ancora fatto lo spuntino di metà mattina, ed è capacissima di prepararsi un filet de Luke à la meunière, o magari à la dieppoise, a seconda dell'umore; se non torno” ammonì il professore agitandogli un dito sotto il naso “la prego di considerare il suo pranzo con profondo sospetto”.

La scrittura della Jackson è un'incisione al diamante, capace di evocare la bellezza più squisita, celando un sesto senso per la violenza. Le parole scorrono così sottilmente affilate, che non ci si accorge immediatamente del loro potere evocativo finché, al termine di un paragrafo, non rimaniamo a bocca aperta, trasognati o sconvolti; lo stile non perde la sua eleganza nemmeno mentre indaga gli stati d'animo più cupi e allarmanti.
La strada, cui ormai la legava un'amicizia intima, curvava e digradava, seguendo svolte che celavano sorprese – una mucca che la contemplava al di là di una staccionata, un cane indifferente - , giù per vallate che ospitavano piccole città, oltre i campi e i frutteti. Nella via principale di un paese passò davanti a una casa enorme, con un portico e un muro tutt'intorno, persiane alle finestre e una coppia di leoni di pietra a guardia dei giardini, e pensò che forse avrebbe potuto vivere lì, spolverando i leoni ogni mattina e augurando loro la buonanotte con una carezza sulla testa. Il tempo comincia questa mattina di giugno, si disse con decisione, ma un tempo stranamente nuovo e del tutto particolare; in questi pochi secondi ho vissuto una vita intera in una casa con due leoni all'ingresso.

L'occhio umano non può isolare l'infelice combinazione di linee e spazi che evoca il male sulla facciata di una casa, e tuttavia per qualche ragione un accostamento folle, un angolo sghembo, un convergere accidentale di tetto e cielo, facevano di Hill House un luogo di disperazione...

Impressioni? La lettura di questo libro si è rivelata un'esperienza agghiacciante - il che gli rende onore, trattandosi di un horror. Oltre alle situazioni raggelanti che si vengono a creare all'interno della casa, il rumore, il non visto, la deformità delle prospettive, le distanze incerte, sono il disagio, l'emotività repressa, il dolore personale, a trasportare il lettore sino all'apice dell'angoscia, conducendolo attraverso la paura dell'esclusione.
Spoiler Eleanor non trova affatto il riscatto che cercava nella sua avventura, rimane inascoltata e sottomessa dalle personalità assai più carismatiche dei suoi compagni; pecca di sincerità, quindi non riesce a giocare la sua parte, non sospettando di avere un ruolo. Vorrebbe mostrarsi forte, esperta, preparata, invece risulta la più vulnerabile di tutti, nonché la più recettiva, e alla malvagità della casa e alla meschinità dei coinquilini. La sua grande empatia la rende immediatamente soggiogabile e, in breve tempo, Hill House la isola dal resto del gruppo.
Gli altri membri della comitiva, inizialmente sembrano persone complesse, misteriose, presenze a loro volta in attesa di essere indagate - ma, di pagina in pagina, la convivenza nei mobili visceri di Hill House ne rivela la natura dura ed egoista; essi sono interpreti di se stessi, e pian piano arrivano a rifiutare la presenza di Eleanor, troppo suscettibile, troppo immediata da capire, che non si preoccupa di confezionare per gli altri i suoi vuoti esistenziali e le sue necessità con il fascino.
L'insofferenza generale si riflette doppiamente nel progressivo cedimento della protagonista, la quale, d'apprima, risponde al distacco dei compagni che la trascurano con dignità, ma poi viene soverchiata dalla paranoia, dal senso d'inadeguatezza, perseguitata dalla stessa solitudine che aveva cercato di lasciarsi alle spalle con la fuga dalla famiglia. Infine, lo spirito della villa la fa sua, e alla donna rimane soltanto un'allucinata ostinazione, un attaccamento convulso alla stessa casa che ne divora la mente, unite al bisogno spasmodico di stringere legami affettivi, che si traduce col desiderio di entrare nelle vite di Luke e Theodora.

Conclusioni: non vedo l'ora di mettere le grinfie su un'altra opera di quest'autrice straordinaria.
Per precauzione, quando verrà il momento, eviterò di leggere a tarda sera.

lunedì 7 marzo 2016

Il Ballo, Irène Némirovsky

La storia si apre con un triste quadro della quotidianità di Antoinette, “una ragazzina di quattordici anni alta e piatta, con il volto pallido tipico di quell'età, così poco in carne da apparire agli occhi degli adulti come una macchia rotonda e chiara, priva di lineamenti, palpebre abbassate, occhiaie, una piccola bocca serrata...” una figlia di risaliti, i signori Rosine e Alfred Kampf, arricchitisi grazie a un “geniale colpo fatto alla Borsa”.
Vittima e bersaglio prediletto delle intemperanze della madre perennemente insoddisfatta, una donna dal carattere bipolare che vive nella costante paranoia che qualcuno scopra le sue modeste origini, la ragazza trascorre le giornate fra le lezioni di piano e quelle dell'istitutrice privata inglese; suo padre, il signor Kampf, funge da debole agente tampone fra lei e le sfuriate di Rosine, ma, essenzialmente, o si occupa delle finanze della famiglia, oppure soddisfa le esigenze (economiche) della consorte.
E così, per debuttare in società come si conviene, questi decide di dare un ballo. Insieme alla moglie, stila una lista di ben duecento invitati, e persino Antoinette partecipa all'organizzazione, scrivendo con la sua bella grafia gli indirizzi.
Si prospetta un sontuoso ricevimento e c'è trepidazione nell'aria, dovuta sia all'ingenza dei preparativi, sia al timore che qualcuno possa decidere di non presentarsi, ma Antoinette è oltre ogni preoccupazione: sogna la serata a occhi aperti, dando per scontata la sua presenza (che ne anticiperebbe addirittura il debutto in società, il quale, normalmente, per le ragazze avviene alla soglia dei quindici anni).
Purtroppo, scopre ben presto (in effetti, ancora fra la dettatura di un indirizzo e l'altra) che la sera del ballo dovrà coricarsi come di consueto alle nove, prima dell'arrivo degli ospiti, e andare a dormire dentro un ripostiglio, dato che, per l'occasione, la sua stanza sarà trasformata nell'angolo bar.
La frustrazione di Antoinette raggiunge il culmine, e si unisce ai primi veri moti di autoaffermazione adolescenziale.
SPOILER [Al ritorno dall'ennesima lezione di piano, miss Betty l'istitutrice, per avere qualche minuto di privacy con il fidanzato prima di doverlo congedare, chiede ad Antoinette di recarsi alla posta ad imbucare gli inviti.
Antoinette, osservando gli amanti mentre si allontana, patisce il peso della solitudine. Sebbene intimamente si senta già una giovane donna, pronta per affacciarsi all'amore, continua ad essere considerata da tutti una bambina, un'ingombrante presenza da ignorare o manovrare a piacimento.
Con risentimento, fa a pezzi gli inviti e li getta nella Senna.
Se, in un primo momento, la protagonista vive con angoscia l'attesa delle conseguenze del suo sabotaggio, giunta la fatidica sera, si scopre senza rimpianti. La compassione e la dolcezza che ogni tanto avvertiva per la madre vengono completamente soffocate dall'odio e dal disprezzo; sgattaiolando nel salone dove i genitori attendono invano gli invitati, gode della loro disperazione, e del litigio che ne consegue una volta arresisi a quello che credono un fallimento. Dopo che il padre se n'è andato (forse per sempre), Antoinette esce dal suo nascondiglio e, sovrastando una Rosine sconfitta, in lacrime, assapora il trionfo della vendetta, la forza della giovinezza, improvvisamente riscoperta. Troneggia sulla regina appena deposta – a sua insaputa – vecchia, e spogliata di successo e gloria.
Forse, avrei preferito che questo scambio di potere avvenisse più sottilmente; apparte questo appunto, il romanzo è breve e graffiante, una storia di bruciori: a partire dalle vessazioni subite dalla protagonista, attraverso le sue delusioni e le umiliazioni continue, e i confronti dai quali esce sempre perdente, fino alla trasformazione da essere sopraffatto, ma empatico, a prevaricatrice indurita dall'amarezza, pronta a rispondere alle crudeltà con ferocia maggiore.
Antoinette mi è apparsa come una versione super condensata dell'Heathcliff di Cime Tempestose, solo molto più meschina, e collocata in un contesto assai più prosaico.]
Questo romanzo è tanto passionale quanto breve. I parossismi dell'adolescenza sono precisamente fotografati in poche righe, e solo per gli stati d'animo contrastanti che attraversa la protagonista, vale la pena leggersi le sue 79 pagine.

sabato 5 marzo 2016

Dobbiamo parlare di Kevin, Lionel Shriver

La storia di una famiglia americana, a suo modo tipica, ovvero: una moglie di origini armene, Eva, donna in carriera che ha ideato una collana di guide per viaggiare economicamente, e un marito, Franklin, fotografo pubblicitario, wasp integerrimo.
Le periodiche esplorazioni di Eva, alla volta di mete low – cost adeguate al suo target di turisti, si traducono in lunghe assenze dal tetto coniugale, le quali provocano l'insofferenza del marito e conducono la relazione a uno stallo. Eva pensa di rimediare con un bambino, che però Franklin non desidera affatto, e così rimane incinta con l'inganno; ma la maternità, che attendeva come un'evoluzione, un'epifania, la lascia... indifferente.
Franklin è un perfetto idiota, e durante la gestazione, impara a trattare la madre di suo figlio (quello che non voleva) con possessività, come temesse che Eva, attraverso tutti quegli atteggiamenti che lui considera “scorretti”, se non addirittura sconsiderati, possa danneggiare una sua proprietà, accidentalmente finita nel di lei grembo.
Kevin il neonato, quando finalmente fa la sua comparsa, è già l'incarnazione del male.
Un male sensuale e diabolico, affascinante, nella sua natura squisitamente contorta.
Ripensandoci (ovvero, una volta ripreso fiato, a fine lettura), non saprei dire quanto abbia trovato realistici i rapporti descritti in questo libro.
Fra Kevin e la madre avviene un continuo scambio di potere, di controllo: l'intesa è quella che intercorre fra due avversari dichiarati, due eterni duellanti, i quali non possono fare a meno di provare un misto di timore e ammirazione reciproca; l'ottusità di Franklin, che lo spinge in ogni occasione a considerare suo figlio immacolato come un angelo, e sua moglie una depravata anafettiva, potrebbe essere giustificata soltanto in una persona che si sente estremamente colpevole; mentre la tenacia con cui Eva sopporta le vessazioni del figlio da una parte, e le recriminatorie del marito dall'altra (soprattutto queste ultime), è quasi un esempio di martirio.
Kevin non è puerile nemmeno da bambino. È malvagio, vuoto, morboso, consapevole di sé e delle sue frustrazioni già dalla più tenera età. Calcolatore, intelligente, un piccolo asceta che rinuncia ad ogni avere perchè sa che chi non ha niente da perdere è invulnerabile. Non riconosce alcun tipo di autorità, è praticamente a prova di fascino, perciò incorruttibile, non genera mai le situazioni imbarazzanti, o goffe, tipiche degli infanti. È un bambino indipendente e distruttivo, la cui immaginazione viene stimolata esclusivamente dal dolore.
Nonostante le dramatis personae incarnino quasi degli ideali assoluti, non so attraverso quale meccanismo o magia, la Shriver è riuscita comunque a indagarne la psicologia con naturalismo disarmante; e così la staticità dei personaggi, che sono, sì, complessi, ma come “schierati”, avvinti al loro ruolo sin dal principio, viene completamente inabissata sotto uno strato di tensione costante; e solo verso il finale, quando i fatti comportano un violento cambio di prospettiva, ci si accorge di essere rimasti in attesa di una risoluzione sin dalle prime pagine.
SPOILER [A tal proposito, senza voler fare anticipazioni: devo ancora giudicare la rinuncia – o disfatta - di Kevin.]
Se il romanzo, da una parte, frusta il lettore, sospingendolo con forza da un capitolo all'altro, allo stesso tempo, esercita una pressione tale da imporgli delle pause. È una narrazione che va assunta in dosi, e la sconsiglio vivamente a chi è in dolce attesa, o stia attraversando un periodo di crisi familiare, poichè potrebbe influenzare un umore già instabile mooolto negativamente – se non dargli il colpo di grazia definitivo.
E con questa pruriginosa sensazione di oddio se è così sconvolgente lo devo assolutamente leggere ORA!, vi saluto, augurando a tutti un lungo, ozioso e ventoso sabato!

giovedì 3 marzo 2016

Le Rane, Mo Yan

Attraverso la penna del nipote Girino, all'impresa con un'opera teatrale sulla vita della zia, le straordinarie peripezie dell'ostetrica Wan Xin, la quale, da dea della fertilità della zona a nord- est di Gaomi, villaggio della Cina rurale, diviene l'inflessibile esecutrice della politica del Partito, che durante il boom demografico predispone un severissimo controllo delle nascite.
Ingaggiando una tenace lotta a colpi di propaganda e cacce all'uomo ( in questo caso, alla gestante) negli stessi territori che, dapprima, l'avevano venerata per la sua sapienza e le sue mani ferme, Wan Xin finisce, in breve, coll'attirare su di sé il rifiuto e il disprezzo dei villani, dai quali viene poi tacciata alla stregua di demone, portatore di sterilità e aborto.
Una storia che parla della maternità: come solo, apprezzabile valore delle giovani contadine; come meta da perseguire per potersi realizzare in quanto donne; come eredità per famiglie e padri il cui unico patrimonio è tramandare la terra che coltivano, nonché come garanzia per poter ottenere almeno la discendenza del proprio nome; maternità come tradizione; come frutto delle stagioni, prodotto di cicli di abbondanza e carestie; come strumento politico, ma soprattutto, maternità come pulsione e desiderio di diventare ed essere madre.
Il romanzo si apre dipingendo l'intimo ritratto di una campagna cinese vasta, storica, sulla quale le epoche s'avvicendano plasmando la mentalità, il linguaggio, lo stile di vita, la fede degli uomini che la abitano; e la sua storicità viene sia contenuta che riflessa nelle vicende di un villaggio, poi di una famiglia, infine, nel punto di vista di due outsider, Girino e Wan Xin. Man mano che i personaggi si lasciano alle spalle giovinezza e luoghi d'origine, la narrazione diventa sempre più drammatica, i toni sempre più teatrali, e ne spicca la natura contrastante, fatta di modernità commista a strascichi di tradizione, che pesano come una paranoia, come un mito divorante, risultando, in ultima analisi, assai lontani dall'antica saggezza buddhista, qui impersonata soltanto dall'artista Hao Dashou, marito di Wan Xin, figura silente, dalla saggezza misteriosa. Un totem, in realtà, che prima trae in salvo Wan Xin dal soccombere ai sensi di colpa e alla solitudine, poi la ricongiunge alle anime dei bambini mai nati, e, di conseguenza, a se stessa, attraverso la creazione delle loro statue.
In questo romanzo, inestricabilmente in relazione fra loro, verità e leggenda, vergogna e sublime, corrispondenza e copione, senso di colpa ed espiazione, Girino e la zia.